Unità del sapere: psicologia e scienze dello spirito devono lavorare insieme /2

Unità del sapere

Come abbiamo visto precedentemente le proposte di unificazione del sapere nella modernità avvengono attraverso autori citati e a partire dal Settecento fino alle grandi Enciclopedie; il Dizionario storico-critico (1702) di Bayle, l’Enciclopédie (1772) di Dederot e D’Alembert,  l’Enciclopedia delle Scienze Filosofiche (1817) di Heghel, fino alla contemporanea Encyclopaedia Britannica, e nella ambito del cattolicesimo l’opera monumentale di Antonio Rosmini, Teosofia (1855). È da notare che il luogo dell’elaborazione interdisciplinare e unificante del sapere nel medioevo, avviene proprio in un contesto universitario. Molti autori moderni in continuità con il mondo medioevale sostengono che il luogo privilegiato per il dialogo interdisciplinare dovrebbe essere il campus universitario: “compreso come un luogo di incontro non accidentale, un’area definita da un’architettura intellettuale, ancor prima che da un disegno logistico, urbanistico o funzionale”.[2] La visione globale del sapere permette l’approccio interdisciplinare e multiculturale nonostante richieda docenti e studenti capaci di un processo interiore e unificante  del sapere:

“è proprio caratteristica delle università, che per antonomasia universitas studiorum […] coltivare una conoscenza universale, nel senso che in essa ogni scienza deve essere coltivata in spirito di universalità, cioè con la consapevolezza che ognuna, seppure diversa, è così legata alle altre che non è possibile insegnarla al di fuori del contesto, almeno intenzionale, di tutte le altre. Chiudersi è condannarsi, prima o dopo, alla sterilità, è rischiare di scambiare per norma della verità totale un metodo per analizzare e cogliere una sezione particolare della realtà. Si esige quindi che l’università diventi un luogo di incontro e di confronto spirituale in umiltà e coraggio, dove uomini che amano la conoscenza imparino a rispettarsi, a consultarsi, a comunicare, in un intreccio di sapere aperto e complementare, al fine di portare lo studente verso l’unità del sapere, cioè verso la verità ricercata e tutelata la disopra di ogni manipolazione”[3]

L’università così intesa diventa il luogo dell’unità del sapere coniugando la scienza con la sapienza, il “come delle cose” e il “perché delle cose”. I limiti di certi tentativi di unificazione del sapere sono da attribuirsi ad una concezione del sapere univoco avente in se stesso i propri fondamenti. È necessaria una scienza aperta capace di una più stretta collaborazione senza la tentazione di estendere il proprio metodo, il proprio statuto epistemologico nell’ambito di un’altra disciplina. Pensiamo all’arricchimento reciproco di un approccio interdisciplinare tra la chimica e la fisica, tra l’economia e la matematica, tra la teologia spirituale e la psicologia. Il dialogo permette di comprendere meglio se stessi e il proprio oggetto di studio e di perfezionare il proprio metodo allargando la capacità di comprendere particolari fenomenologie. Il rischio di cadere in una illusione ingenua è certamente vero, se si ritiene sufficiente un approccio interdisciplinare inteso come un accostamento di esperti attorno ad un tavolo per risolvere un problema.[4] In campo psicologico, di fronte alla diagnosi di un caso particolare, mettere insieme psicologie differenti a confronto risulta in pratica impossibile. Se qualcuno ritenesse che in campo teologico l’unità del sapere fosse più facile e lineare ignorerebbe la frammentazione e la confusione nella teologia contemporanea. Gli esempi citati si riferiscono ad approcci intra-disciplinari, immaginiamo a che livello di difficoltà ci troveremmo nell’accostare discipline completamente diverse. Questo mette in evidenza che occorre un unico modello di riferimento per unificare il sapere, in altre parole l’interdisciplinarietà deve necessariamente fondarsi su una riflessione filosofica e soprattutto su cosa sia la conoscenza[5] (gnoseologia) per aprirsi a diversi livelli di intelligibilità del reale[6], solo in questo modo possiamo parlare di un vero percorso interdisciplinare. Lo stesso oggetto materiale, per esempio l’uomo, può essere studiato e conosciuto mediante diversi oggetti formali; dal punto di vista fisiologico, psicologico, spirituale. Un tale livello di comprensione esige un procedimento logico sviluppato a diversi livelli che si incontrano nella messa a fuoco dell’uomo concreto, del caso concreto che si sta studiando attraverso l’osservazione dei fenomeni. L’intelligibilità del reale si struttura in un sistema aperto anche accogliendo il sapere proveniente dalla fede e dalla teologia. La complessità di tale processo interdisciplinare richiede un attento uso dei termini e del loro significato e una visione integrale dell’uomo. Inoltre è indispensabile la formazione del soggetto che fa scienza, in modo particolare e ineludibile per coloro che hanno l’uomo come “oggetto materiale” del loro studio. Nell’approccio interdisciplinare non si tratta solo di coinvolgere le scienze, ma anche soprattutto la persona che fa scienza. L’unità del sapere non è una somma di saperi ma una unità di metodo e una unificazione di contenuti che lo scienziato in quanto persona è capace di porre in essere. L’unità dal sapere interdisciplinare non si irrigidisce su una visione del mondo o dell’uomo ma si caratterizza per la capacità di ascoltare l’uomo nel mondo. Il percorso interdisciplinare multiculturale e integrale non è mai auto sufficiente, non produce la realtà in quanto tale, ma si pone in ascolto e la scopre sotto diversi punti di vista. È un realismo conoscitivo capace di osservare la concretezza e la storicità dell’umanità, fondando la sua capacità di conoscere nella Rivelazione e in particolare nella categoria teologica dell’Incarnazione e della Resurrezione. La teologia cristiana ha il compito di riconoscere e valorizzare ciò che si trova in ogni cultura e di evidenziarne gli aspetti oggettivi e universali, fondando il suo criterio ermeneutico sull’incarnazione del Verbo, sulla Rivelazione di Dio in Cristo Gesù, principio di tutte le cose: “tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”(Col 1,16). Guardando Gesù Cristo, uomo nuovo, conosceremo l’uomo universale nelle sue sfumature antropologiche. Se consideriamo la fede in relazione con una persona, Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, e attingiamo a questa relazione profonda per mezzo dello Spirito Santo riconosceremo facilmente il bisogno d’amore che Dio Padre ha messo nel cuore di tutti gli uomini.

“L’affermazione dei principi morali non è di competenza dei metodi empirico-formali. Senza negare la validità di tali metodi ma anche senza restringere ad essi la sua prospettiva, la teologia morale, fedele al senso soprannaturale della fede, prende in considerazione soprattutto la dimensione spirituale del cuore umano e la sua vocazione all’amore divino.”[7]

Riteniamo fondamentale considerare l’azione dello Spirito Santo nel cuore dell’uomo perché è l’Amore trinitario che ci abilita alla vera conoscenza. La via che conduce alla conoscenza adeguata dell’essenza della realtà è l’Amore, ma vi sono degli ostacoli e dei pregiudizi riguardo a questa capacità data all’uomo.

“Il primo pregiudizio è l’idea che se per comprendere l’essenza dell’amore si parte dall’atto personale dell’amore, si abbandona il livello metafisico e si scivola in uno meramente psicologico […] si crede con ciò di separarsi dal mondo grande, profondo, dalle realtà più elementari, oggettive. Questo è un  pregiudizio del tutto infondato. Se fosse vero, non si potrebbe partire dall’atto personale neppure nell’analizzare la conoscenza e la volontà.”[8]

Ritenere l’amore una via della conoscenza è ignorato o ritenuto impossibile per coloro che ritengono la metafisica inutile e senza senso come ad esempio S.Freud. Facciamo un breve esempio sviluppato in Hildebrand. L’esempio si riferisce alla versione che alcuni hanno di considerare gli atti personali e spirituali aventi un senso e un valore in se stessi:

“Si tratta  dell’idea che l’amore sia una sorte di sintomo dell’unità, una manifestazione soggettiva dell’unità. Si crede di poter derivare l’amore dall’unità con altre persone […] si ama sé stessi perché […] l’amore si estende secondo natura a tutto ciò che in qualche modo appartiene a me, forma un’unità con me. […] così si ritiene che uno ami la patria alla quale appartiene, che ami la sua famiglia, i suoi parenti, ecc.”[9]

Erroneamente si ritiene che il fondamento dell’amore risieda nell’unità tra me rispetto a tutte le cose e le persone, un’estensione dell’amore di sé. In verità questo non è ragionevole, al contrario tra le persone umane viene prima l’amore reciproco. È dall’atto d’amore gratuito, reciproco, che scaturisce l’unità o l’unione. L’amore è uscire da sé stessi non estendere se stessi. Essere amati, l’amore di sé e l’amare l’altro è da considerarsi la via della conoscenza, il superamento egoistico di sé stessi per aprirsi ad una conoscenza sublime, che con stupore ci da di conoscere ciò che non conoscevamo in una forma prima a noi sconosciuta; la conoscenza contemplativa. L’amore ci permette di conoscere la realtà, ci permette di uscire da noi stessi come risposta al valore delle cose. Si comprende l’urgenza d’una critica ad un certo modo di concepire la psicologia e la scienza sull’uomo. La scienza dello spirito:

“Esamina la struttra a priori della realtà spirituale e si contrappone all’idea della psicologia che ha per oggetto la psiche con le sue disposizioni e si suoi stati mutevoli ricercando leggi nella formazione delle disposizioni e nel cambiamento degli stati. […] Nello scandagliare la psiche umana, psicologia e scienza dello spirito devono lavorare insieme.”[10]

Distinguere psiche da spirito è indispensabile per lavorare insieme. La teologia spirituale, intesa come scienza dello spirito, ha per oggetto di studio l’azione dello Spirito Santo nell’uomo e nella creazione. Dal punto di vista fenomenologico ricerca il fondamento sul quale si basano le genesi spirituali empiriche che sono il presupposto per la loro comprensione. Solo così si comprende ciò che avviene nella vita dei santi e dei mistici, nei casi di possessione o vessazione diabolica presenti in tutte le religioni e culture.


[1] G.Tanzella-Nitti, Unità del sapere, in Dizionario interdisciplinare scienza e fede, Ed. Urbaniana, Roma 2002.

[2] idem

[3] Giovanni Paolo II, Incontro con il mondo della cultura i docenti e gli studenti dell’Ateneo torinese, n.3, 3.9.1988.

[4] Un amico chirurgo di lunga esperienza, conversando sull’utilità della interdisciplinarietà, mi faceva osservare che l’approccio interdisciplinare immediato, sia nella diagnosi che di fronte al paziente sul tavolo operatorio per individuare le procedure più efficaci, aveva sempre il rischio di condurre l’équipe a non prendere decisioni perché nessuno si assumeva la responsabilità finale dell’unità del sapere.

[5] D. von Hildebrand, Che cos’è la filosofia?, Bompiani, Milano 2001.

[6] J.Maritain, Distinguere per unire. I gradi del sapere (1932), Morcelliana, Brescia 1974.

[7] Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor n.112, 06.08.1993

[8] D. von Hildebrand, Essenza dell’amore, p.60-65, Bompiani, Milano 2003.

[9] Idem

[10] Stein Edith, Psicologia e scienze dello spirito, p.318, Città Nuova, Roma 19992

5 risposte a “Unità del sapere: psicologia e scienze dello spirito devono lavorare insieme /2”

  1. Sulla base di ulteriori letture, vorrei ‘andare avanti’ rispetto al mio iniziale commento. Come ispirazione d’inizio per la costruzione di una visione pedagogica (mi auguro non chimerica) degli studi universitari, mi lascio guidare dal prospetto delle possibili strutture elaborate dal Gruppo di lavoro sulla Riforma, Università di Bergamo, “Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede”, per privilegiare, tra le “quattro linee convergenti” da esso indicate nei riguardi del concetto di universitas, quella che si fonda sull’”aspirazione alla costruzione di un’unità del sapere che, in relazione alla cultura del tempo, sia in rapporto con la sintesi che ciascun individuo [il corsivo è mio] elabora attraverso il proprio iter formativo”. Il relativo percorso è dunque inteso come quel cammino che ha quale fulcro fondamentale la “persona” ed il suo lavoro che preferisco chiamare di ‘ricapitolazione’ del sapere, nella prospettiva finale della sua unità.
    Mi appare utile a questo riguardo citare il giornalista studioso di teologia Andre Monda per cui ‘ricapitolare’ è quel complesso di azioni che mira ad “illuminare, far emergere, ponderare, valutare, giudicare, decidere” per comprendere e procedere nell’azione. Ripercorrere per intero il proprio processo cognitivo con la capacità ed il fine di capire il senso di ogni singola disciplina nella sfera del tutto, nonché manifestare la propria disponibilità a esplorare ciò che ancora non si è indagato per il possesso di tutte le conoscenze che corrispondano alle proprie finalità, costituisce quell’’unità soggettiva del sapere’ finalizzata all’azione personale, secondo quelle che mi appaiono essere le indicazioni più significative del suddetto ‘gruppo di lavoro’.
    Allora, tutto questo avviene in un processo di costruzione progressiva del sapere che ogni individuo compie mediante lo studio che quotidianamente egli fa secondo la propria prospettiva di sintesi e la visione culturale di cui è partecipe. In questo senso è da intendere l’approccio ‘interdisciplinare’ del tutto sui generis, certamente in una sua concezione, apparentemente più ‘semplice’ rispetto a quella oggettiva, metodologicamente (più?) corretta.
    Mi chiedo se questa sia una via per il superamento delle enormi difficoltà insite nella nozione prevalente di interdisciplinarità, intesa come approccio che mira a stabilire nuovi concetti, metodi, epistemologie attraverso un processo di ‘amalgama’ di differenti discipline, vale a dire di integrazione tra di loro per il fine di un mutuo arricchimento. Infatti, tutto ciò implica la costruzione di concetti e modelli che includano – attraverso un processo di ‘fusione’ – l’interpretazione data da più discipline coinvolte nell’analisi di differenti ‘stratificazioni’ della realtà. Un approccio, quello dell’interdisciplinarità, che conserva ancora delle connotazioni per me utopiche per la sua implementazione, tant’è che è forse più realistico ridimensionare gli intenti e cimentarsi con un metodo multi-disciplinare, inteso come tentativo di raggiungere una sorta di ‘accordo’ attraverso la ‘sovrapposizione’ di argomenti e/o di livello di analisi che sia comune a coppie di discipline e che non trascenda il ‘set’ dei criteri seguiti da ciascuna di esse. In modo più specifico, attraverso la sovrapposizione di quella parte dei modelli che è ‘compatibile’ con ciascuna di esse ed è appartenente a differenti discipline, la multidisciplinarità apparirebbe sì come una soluzione di second best, ma sarebbe un metodo epistemologico efficace e desiderabile quando ciascuna disciplina comunica con le altre.
    Il motivo essenziale di un approccio multidisciplinare è – dunque – quello di riannodare in una trama unitaria i fili che due discipline tessono in piena autonomia e che acquistano senso nella mente di quanti li accolgono in una loro sintesi personale. Questo perché la soluzione dei vari problemi non può avvenire senza mobilitare le diverse prospettive disciplinari e senza il metodo di trasferire strumenti e schemi concettuali da un contesto disciplinare ad un altro, in modo da individuare all’interno dell’unità del sapere le ragioni delle differenze e delle analogie.
    La multidisciplinarità, allora, tiene conto dei ‘colloqui bilaterali’ che intercorrono tra discipline ‘convergenti’ nel processo di comprensione soggettiva dei fenomeni attraverso la conservazione della pluralità dei punti di vista e la consapevolezza delle differenti dimensioni dell’argomento oggetto d’esame. In definitiva, ci troveremmo dinanzi ad una sorta di giustapposizione di discipline esistenti, che è di tipo ‘addittivo’ e non ‘integrativo’.

  2. Apprezzo e condivido le riflessioni e i commenti di questo articolo. Mi permetto di proporre, attraverso una applicazione teologica, un modesto contributo alla discussione, che si discosta leggermente dal tema centrale “psicologia e scienze dello spirito”, ma spero che possa offrire ugualmente un aiuto alla comprensione e uno stimolo ad ulteriori approfondimenti.
    Sono convinto che il concetto di scienza (conoscenza universale) debba riguardare un tipo di sapere che non si limita a constatare l’esistenza di un oggetto o di un fatto, ovvero la semplice descrizione degli eventi (sia che si tratti di un evento di tipo naturale, sia di uno prodotto dall’uomo o da altri agenti).
    La corrispondenza al vero nell’ambito scientifico è altrettanto importante quanto la presenza dell’ossigeno per la vita umana. La scienza ha il compito di farci comprendere la verità delle cose, nel modo più completo possibile e per questo si avvale dei singoli ambiti scientifici (scienze), con i loro propri metodi e contributi.
    La storia, ad esempio, in quanto scienza si occupa di esporre la verità dei fatti, non solamente descrivendo il modo con cui essi sono avvenuti, ma anche fornendo la spiegazione o motivazione storica, contingente, che ha portato alla loro realizzazione. Così possiamo dire, da un punto di vista storico, non solo che siano stati compiuti atti barbari e disumani nei confronti di Gesù Cristo, durante la sua passione, ma anche che la causa della sua passione e della sua morte in croce fu l’incredulità dei Sommi Sacerdoti circa la sua divinità, che li indusse a considerarlo un bestemmiatore e a chiedere a Pilato la sua condanna a morte. Tuttavia, se volessimo avere una spiegazione pienamente scientifica della sua morte, se volessimo raggiungere un sapere più “vero” e più completo (universale), dovremmo forse prendere in considerazione anche altri fattori.
    Lo stesso evento della passione di Cristo potrebbe essere considerato, per esempio, sotto il punto di vista medico o quello strettamente teologico. Ricercare e comprendere le cause della morte fisica di Gesù – per capire il motivo che ha determinato la morte del corpo o per intuire le sofferenze da lui subite – rientra in un tipo di conoscenza particolare, che, pur essendo conforme a verità, prende in considerazione soltanto una parte della realtà, perché ne esamina l’aspetto più materiale e contingente. Essa ci aiuta a comprendere quell’evento, ci avvicina alla verità, ma non la esaurisce del tutto: l’evento della morte di Gesù non ci è ancora spiegato in tutta la sua ampiezza e non possiamo dire che la nostra sete di conoscenza trovi completa soddisfazione nel sapere come è morto Gesù. Con uno sguardo più ampio, potremmo cercare di individuare delle cause ancora più caratteristiche e significative del mistero della Passione di Cristo, per darne una spiegazione più completa, più “vera”. La prospettiva teologica ci apre gli occhi sul disegno di salvezza del Padre Celeste che ha mandato il Figlio Unigenito nel mondo per salvare il mondo e sulla volontà del Figlio di Dio che ha offerto in sacrificio la sua vita in riscatto per i peccatori. Veniamo così a conoscere le cause soprannaturali e più decisive della morte di Cristo: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). In questo modo aumenta la nostra comprensione del fatto che un uomo – il Figlio di Dio fatto uomo – è stato crocifisso ed è morto: veniamo, infatti, a conoscere non solo la causa immediata e materiale della sua morte, ma anche il perché di essa, la “disposizione” o volontà da cui proviene. Anche questa conoscenza fa parte del sapere scientifico, perché in essa un determinato evento si disvela a noi nelle motivazioni profonde che hanno portato al suo verificarsi e non solo nelle sue cause contingenti. Così possiamo dire di conoscere veramente quell’evento, in tutta la sua portata, possiamo dire di non averne semplicemente una conoscenza superficiale o parziale, ma di averne scienza.
    In questa prospettiva le singole scienze si “fondono” insieme nel soggetto che conosce, attraverso la sintesi che la persona umana fa in se stessa per avvicinarsi alla realtà, cioè alla verità.

  3. Ad una più attenta riflessione sulla distinzione tra “interdisciplinare” e “mutlidisciplinare” offerta dal Prof.Tucci e delle sue puntuali e condiisibili osservazioni vorrei tentare un ulteriore approfondimento. Sul piano del rapporto multi disciplinare in ambito universitario occorre, a mi avviso, operare una distinzione tra le scienze positive-fisiche e quelle filosofiche-teologiche. Nell’ambito delle discipline scientifiche l’incontro è favorito dal chiarimento dell’uso dei termini e del loro contenuto semantico. Sono d’accordo che non è la somma delle conoscenze acquisite che produce il sapere nel senso interdisciplinare o anche solo multidisciplinare; l’integrazione concettuale è ardua e forse utopica! Diversa, invece, è la configurazione dello sforzo multi disciplinare quando si incontrano modelli scientifici che hanno per statuto epistemologico un diverso oggetto formale che indaga e argomenta su piani ermeneutici molto distanti. Per esempio la filosofia e teologia nei confronti delle scienze esatte o positive. Lo sforzo del Cento Studi Salus Hominis che abbiamo fondato nel 2005 ha lo scopo di far incontrare questi mondi “separati”: per esempio, se parlassimo della invidia come tema antropologico, l’argomento verrebbe trattato nelle sue molteplici sfaccettature; l’invidia nei monaci e nei Padri del deserto, l’invidia nel rapporto con i beni materiali e dinamiche macro e micro economiche, l’invidia nel rapporto con le persone e aspetti psicologici, la santa invidia nella vita buona, le pulsioni e il desiderio nella vita psichica, la relazione dell’invidia con l’odio o l’omicidio come movente, l’invidia nella Sacra Scrittura e nelle religioni, ecc. Non si può parlare di interisciplinarietà e forse è eccessivo utilizzare il termine multidisciplinare, ma l’incontro con le altre prospettive attorno ad un tema antropologico può arricchire tutti se prevale l’atteggiamento d’ascolto e di stima e la sana “curiositas”.

  4. Molto interessanti le osservazioni critiche. Condivido anche le perplessità per quanto riguarda una possibile interdisciplinarietà debole. Forse è nella persona stessa che si può parlare di una capacità d’ascolto che sappia accogliere spunti e stimoli dall’altra disciplina senza tentare l’unità semantica dei termini (concetti). Certamente meglio parlare di un approccio multi-disciplinare, che è già molto. Tuttavia lo sforzo dell’inculturazione della Fede, come avvenuto per la cultura e filosofia greca, richieda oggi di affrontare il nuovo “areopago” delle scienze positive, talvolta pseudo-scientifiche e incompatibili con i minimi dati della Rivelazione. Forse una utopia o preferisco una speranza che richiede alcuni secoli di capillare, consapevole e audace lavoro.

  5. Ho sempre avuto delle forti perplessità ad accettare l’impiego “disinvolto” del termine inter-disciplinare quale sinonimo della multi- disciplinarità. Né sono stato mai propenso ad accogliere che l’anelito plurisecolare verso l’’unità del sapere’ dovesse condurre necessariamente a una forma di “inter-disciplinarità ‘debole’ definita come multi– disciplinarità”, della quale riferisce Tanzella-Nitti nel suo Dizionario Interdisciplinare. Si tratterebbe, infatti, di un espediente che ritengo metodologicamente scorretto, una sorta di compromesso che ci allontanerebbe da un percorso lineare del procedimento scientifico di analisi.
    Ora e in primo luogo, sono pienamente convinto che il perseguimento del fine dell’unità della scienza sul modello medievale, poi rinascimentale e quindi humboldtiano sia patrimonio ed elemento distintivo dell’istituzione universitaria. Non per nulla anche nel logo di una qualsiasi istituzione di tal genere appare di solito il termine: “Università degli Studi di….” a indicare in forma riassuntiva questa sua finalità primaria. In secondo luogo, ciò che è maggiormente significativo è costituito dal fatto che le varie scienze o discipline confluite – ad esempio – in un’unica Facoltà possono far uso di uno stesso termine, pur indicando con esso significati diversi che riflettono la peculiare visione d’indagine di ognuna di esse. Per intenderci, se prendiamo come riferimento il tema della configurazione dell’uso del suolo (o l’‘assetto del territorio’ di una città o di una regione), tema oggetto di studio da parte di diverse scienze o discipline, osserviamo che per l’Economia politica la sua angolazione prospettica è costituita dall’elemento “scarsità” delle risorse da impiegare in modo alternativo rispetto alla pluralità dei bisogni da soddisfare, mentre per la Geografia economica, l’approccio delle sue indagini è rappresentato dalla caratteristica dell’”accessibilità” di una risorsa territoriale. E così proseguendo per ogni scienza o disciplina chiamata in causa dal processo di “inter-disciplinarità” nello studio di un determinato “assetto territoriale”. Allora, la costruzione di un ‘concetto’ che intenda impiegare una medesima locuzione verbale in una prospettiva di tal genere non è la semplice risultante di un processo di ‘somma’ delle conoscenze acquisite dalle singole discipline o scienze, bensì l’esito di una complessa ed alquanto ardua operazione di integrazione concettuale in cui tutte le scienze partecipanti si riconoscono, considerando un tale nuovo concetto come appartenente a tutte e non più esclusivamente patrimonio di ciascuna di esse. L’inter-disciplinarità così intesa è una meta ancora lontana, difficile e per me forse utopica da raggiungere, per cui attualmente possiamo dirci soltanto ‘immersi’ in uno stadio preliminare, esclusivamente di mera natura multi-disciplinare.

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