Psicologia del male e “spiritualità” del male

La psicologia del male

Il potere della situazione e la responsabilità degli atti

Per collocare gli atti  umani nel nostro quadro ermeneutico, distinguendo le dinamiche psichiche da quelle spirituali e quelle morali da entrambe, dobbiamo approfondire la psicologia di chi compie il male. Vi sono diverse correnti di pensiero che danno interpretazioni differenti sul perché l’uomo copia atti criminali nei confronti di persone innocenti. Sono stati studiati i comportamenti disumani di soggetti normali, psichicamente sani e socialmente inseriti, individuando dinamiche situazionali che condizionano l’agire umano. Ne riportiamo una sintesi premettendo che l’agire dell’uomo, se libero e senza gravi condizionamenti, porta con sé la responsabilità soggettiva di chi compie consapevolmente l’atto malvagio. Le dinamiche delle situazioni in cui si trova ad agire la persona sono da prendere in seria considerazione come meccanismi psicologici che favoriscono l’atto moralmente riprovevole e che servono da auto giustificazione in chi compie l’atto, ma non la sgravano dalla responsabilità penale e morale dell’azione.

La de-responsabilizzazione e diffusione della responsabilità

Tutti i punti seguenti convergono su questo aspetto principale del contesto dell’agire umano per condurre una persona normale a compiere atti criminali verso persone innocenti. Il contesto privilegiato richiede di de responsabilizzare colui che compie l’azione favorendo l’anonimato, garantendo la impunibilità, proteggendo il suo comportamento con regole condivise, diffondendo sul gruppo o sul grado di comando la responsabilità degli atti soggettivi. Questo avviene facilmente definendo ruoli all’interno di un meccanismo di comando, conformando il singolo a comportamenti uniformati a quelli stabiliti, con un processo graduale e apparentemente “normale”. Anche l’uso del linguaggio è importante,  deve essere dolce e rassicurante; missione di pace, intervento umanitario, interrogatori necessari, punizioni esemplari, prendere la curva (allo stadio). Tutto poi deve essere minimizzato, distorcendo le conseguenze, per togliere ogni senso di colpa; se l’è cercata, è colpa sua, poteva evitarlo.

La de-individuazione (gruppo e anonimato)

La distanza rende astratto il dolore e modifica il campo cognitivo, anestetizza il senso di colpa nei confronti della vittima. Ad esempio il pilota di un aereo da guerra che sgancia le bombe sulla popolazione civile uccidendo donne e bambini. Formare una situazione di gruppo da cui la vittima è esclusa è essenziale, per prendere le distanze e rimanere protetto dal gruppo, senza un “nome” rispetto all’atto commesso. È il gruppo che agisce e il singolo resta nell’anonimato. Questo permette alla persona di compiere atti criminali senza che senta il peso morale dell’atto commesso. Questo meccanismo funzionava anche tra i nazzisti nei campi di concentramento.

Il ruolo dell’obbedienza e la paura del castigo

Se la persona è dentro una struttura di comando, attribuisce all’obbedienza ricevuta la responsabilità dell’atto criminale, come avviene nell’ambiente militare ma anche nella mafia, una gang, una setta. La paura del castigo e di subire le stesse conseguenze della vittima agisce da deterrente impedendo di modificare il comportamento.

Sequenzialità e gradualità dell’azione

Un altro elemento che influenza l’azione perversa e criminale è la sequenzialità dell’azione. Una azione portata avanti per gradi, aumentando la crudeltà poco per volta. È un meccanismo che si struttura nei riti delle sette che “accompagna” il carnefice che agisce nell’anonimato a nome di tutti. Tutti infatti vi partecipano per gradi attraverso una pressione di conformità e una adesione graduale.

Condotta irrazionale ed espansione delle differenze con l’altro

Quando l’azione criminale avviene in gruppo, per esempio un gruppo di teppisti allo stadio, la condotta è irrazionale e prede il sopravvento sui singoli. In questo modo si espande la differenza con l’altro che è da colpire, non è dei nostri, è nemico, è da eliminare senza un perché reale.

Umiliare e de-umanizzare l’altro

Anche durante le torture, in caso di guerra per esempio, l’altro deve essere de umanizzato attraverso un processo di umiliazione. Deve essere distrutta la sua dignità e considerato un animale per poter infierire su di lui senza scrupoli. Questo avvenne nei campi di concentramento nazisti, ma anche nelle carceri di Abu Ghraib in Iraq.

Conformismo: pacifisti che diventano aguzzini

Un altro atteggiamento che si riscontra in chi compie atti criminali contro innocenti è il conformismo. Tutti si comportano così, quindi non c’è nulla di male. Sono gli altri che stabiliscono le regole decidendo per me, dunque non ho colpe perché tutti fanno così.

I due autori citati concludono lo studio sottolineando che tutti o quasi tutti possono compiere atti criminali in determinate circostanze. Credere di esserne immuni è una “facile illusione”, è un meccanismo di difesa mentale per farci stare dalla parte dei buoni, dalla parte dei giusti. Invece la maggior parte dei genocidi e degli atti criminali verso gli innocenti vengono fatti da persone sane mentalmente, in altre parole, normali. Siamo d’accordo se consideriamo l’uomo nella sua dimensione “carnale” condizionato dal peccato originale e facilmente condizionabile da situazioni esterne. Tuttavia la vera vita nello Spirito, l’adesione alla vita battesimale, che non coincide con la pratica religiosa esteriore, mette al riparo da tali comportamenti fino a dare la vita per l’altro come fece San Massimiliano Maria Kolbe nel campo di concentramento nazista e tanti altri testimoni della fede. Certamente non è l’adesione alla religione, nel senso generale di credere in Dio e di appartenere alla religione dominante, che garantisce la capacità di senso critico nei confronti del contesto. Tanto è vero che la capacità di empatia nei confronti delle vittime è patrimonio anche di coloro che non credono e che non professano alcuna fede religiosa.

La “spiritualità” del Male

Alla psicologia del male dobbiamo accostare la “spiritualità” del male che talvolta si intreccia e altre volte si distanzia. Ovviamente diamo per presupposto ermeneutico l’esistenza attiva dello spirito del Male, inteso come creatura sottomesso a Dio e incapace di compiere una azione dannosa, nei confronti dell’uomo e della creazione, che vada oltre la tentazione. Il tentatore non tenta chi ama il peccato e tutto ciò che l’uomo considera malvagio. Esclusi i casi di malattia mentale grave, il malvagio consapevole e determinato ha una simbiosi con lo spirito del Male e nella misura in cui lo invoca o vi collabora consapevolmente sviluppa quello che chiamiamo “spiritualità” del Male. Fare il male per averne un vantaggio non è ancora quello che identifica una spiritualità satanica; è un inizio ma non il compimento. Lo spirito del Male troneggia nel cuore dell’uomo che si consacra liberamente e gratuitamente a lui; si passa dall’amare se stessi a scapito degli altri, ad amare gratuitamente lo Spirito del Male dandogli il culto richiestogli. Giustamente è da obiettare che nel male non vi è un amore gratuito e oblativo, tuttavia questa dinamica ingannatrice e perversa apre alla “mistica del Male” nel desiderio di avere gli stessi poteri dei demoni da esercitare sulla terra e, quando sarà il momento, all’inferno. È qui che si comprende la gravità della pratica magica o dei riti esoterici e dei riti satanici, anche se partecipati o praticati per fini “scientifici”. Rimandiamo ad un altro studio questo argomento che richiede una rigorosa analisi filosofica e teologica dei concetti esposti.

 


[1] Dinamiche che favoriscono e “liberano” la possibilità  di compiere atti malvagi le sintetizziamo dallo studio di Phil Zimbardo e Piero Bocchiaro.

[2] Zimbardo P., The Lucifer Effect, Random House, New York 2007; trad. It. L’effetto Lucifero, R. Cortina, Milano 2008.

[3] Bocchiaro P., Psicologia del male, ed. Laterza, Roma 2009.

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