Rilievi critici e considerazioni su alcuni modelli antropologici

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La lettura e l’interpretazione dei testi di spiritualità e/o di mistica attraverso una «vedetta antropologica» comporta una lettura con propri criteri euristici che inevitabilmente esprimono giudizi sull’esperienza spirituale, arrivando a considerazioni molto differenti e forse contrastanti. Da un lato vorrei tentare in qualche modo di prendere criticamente le distanze da alcuni di questi modelli antropologici e dall’altro lato esplicitare l’assunzione di un modello antropologico fondato sulla Sacra Scrittura, sui Padri della Chiesa, sui Dottori mistici che si agganci anche ad un autore contemporaneo facilitando al lettore alla comprensione critica della nostra «vedetta antropologica». In questa prima parte seguiranno alcuni interventi nell’area dell’antropologia teologica: la categoria teologica del soggetto incarnato in M. Flick e Z. Alszeghy; nell’area dell’antropologia filosofica il primato dello spirito nel personalismo comunitario in E. Mounier; nell’area delle scienze psico-sociali gli studi antropologici su basi interdisciplinari della psicologia del profondo in L.M. Rulla.

Il soggetto incarnato in  M. Flick e Z. Alszeghy[1]

Condividiamo il punto di partenza dei due teologi, considerando l’uomo immagine di Dio in quanto è persona «dotata di una speciale immanenza e trascendenza […] ha una speciale dignità superiore a tutto il mondo materiale eppure l’uomo appartiene al mondo materiale»[2]. Si tratta di individuare la categoria teologica che espliciti la struttura di questa diversità nell’unità: come spiegheremo più avanti, noi preferiamo parlare di «creatura duale abitata dallo Spirito» mentre gli illustri teologi preferiscono la categoria del «soggetto incarnato».

a) Un diverso approccio fondativo desunto dalla Sacra Scrittura

 Riguardo alla struttura dell’uomo nella Sacra Scrittura, descritta nei termini di soma, psiché e pneuma, si argomenta per dimostrare che:

“la semantica di queste parole mostra varie fasi del passaggio dall’uso metaforico verso la concettualizzazione; il significato è perciò oscillante nei vari libri, anzi nei vari contesti della medesima opera. La speculazione teologica non può dunque appoggiarsi su questi termini, come se essi costituissero asserti chiari e distinti sulla struttura dell’uomo” [3].

Diversamente da questa considerazione semantica comunemente citata, il nostro approccio teologico, senza la pretesa di trovare sempre asserti chiari e distinti nell’uso dei termini, del loro significato semantico e di contenuto descrittivo, ritiene che sia possibile fondare biblicamente la categoria teologico-antropologica dell’uomo considerato «creatura duale abitata dallo Spirito». Il fatto che nella Bibbia si racconti l’esperienza umana senza una dichiarazione definitoria sull’uomo, conduce gli autori ad affermare:

“l’uomo è più simile a Dio e agli angeli che non alle bestie, appunto per la sua capacità di intendere e di volere, qualità che non appartiene necessariamente ad ogni essere corporeo. Quale sia la struttura metafisica che fa possibile una tale diversità nella somiglianza la Bibbia non lo dice” [4].

La nostra prospettiva antropologica senza pretese filosofiche ma con coerenza tra il dato biblico e l’esperienza spirituale dei Santi, troverà invece fondamento biblico nell’antropologia paolina, ritenendo, a differenza delle interpretazioni dominanti, i termini usati dall’Apostolo sufficientemente univoci e recepiti chiaramente dai Padri della Chiesa, come vedremo in Sant’Ireneo e in Sant’Agostino.

 b) Rispetto all’approccio ilemorfico tradizionale un linguaggio più attuale

Il tentativo della Scolastica, recepita dal Magistero, di spiegare l’unità corpo-anima attraverso l’ilemorfismo materia-forma non soddisfa i due teologi che la giudicano estranea alla tradizione biblica e lontana dal linguaggio moderno:

 “Attualmente, essendo la concezione ilemorfica della materia praticamente abbandonata, le categorie materia-forma, non avendo altra applicazione eccetto il caso dell’uomo, non danno una vera spiegazione sull’unione spirito-materia. […] Per comprendere correttamente l’affermazione che anima e corpo sono uniti come forma e materia, si ha bisogno di riesumare un sistema universale, per applicarlo esclusivamente all’uomo, procedimento che certamente non facilita la comprensione del fenomeno umano quale appare nella rivelazione” [5]

Non possiamo che condividere con Flick e Alszeghy una tale approccio critico all’ilemorfismo senza negarne l’utilità avuta in passato come gli stessi autori affermano:

 “l’uomo è composto di corpo e anima, che sono due sostanze incomplete e sono unite come materia e forma. Ciò non è stato messo in dubbio […] Anzitutto, tale teoria, presupposta da tutta la chiesa per tanti secoli come corrispondente alla dottrina biblica dell’uomo, non può essere ad essa contraria: la dottrina dunque della composizione dell’uomo di anima e di corpo come  materia è almeno una dottrina «sicura», cioè affermandola non si mette in pericolo la fede” [6].

 c) La teologia contemporanea e la prospettiva della categoria di uomo soggetto-incarnato

L’idiosincrasia teoretica-antropologica con la nostra vedetta ermeneutica si evidenzia in primo luogo nel cambio di rotta nell’uso dei termini per descrivere il «composto umano» e in secondo luogo, dopo aver condiviso la critica alla categoria ilemorfica, ci distingue  nell’interpretazione di ciò che chiamiamo «dimensione spirituale dell’uomo». Assistiamo ad un cambio di rotta semantica: l’insufficienza dell’ilemorfismo conduce gli autori alla scelta di assumere come ermeneutica antropologica [7] il concetto di soggetto incarnato con un cambio di rotta che non prevede l’arcipelago dei termini anima-corpo, materia-spirito;

“l’uomo ha anima e corpo; tuttavia, senza contestare questa conclusione non la scegliamo come asserto centrale del discorso teologico sulla struttura dell’uomo. Per spiegare l’immagine biblica dell’uomo, che implica l’unità e insieme una dualità (escludendo sia il dualismo sia il monismo antropologico) preferiamo l’espressione: l’uomo è un soggetto incarnato. Tale termine infatti esprime sufficientemente la dualità del fenomeno umano” [8].

Riteniamo che assumere un tale approccio antropologico nella lettura dei testi dei Santi e della loro esperienza spirituale renda parzialmente inaccessibile l’interpretazione autentica del linguaggio spirituale e in particolare le linguaggio dei mistici che assumono parametri concettuali, quali anima e corpo, considerati invece insufficienti e inadatti dagli autori citati. Come la concezione ilemorfica per salvare l’unità anima-corpo si allontana dal dato biblico così la categoria di uomo soggetto incarnato si allontana dal dato esperienziale codificato in un linguaggio che chiede l’uso dei termini anima e corpo (salvezza dell’anima o delle anime, penitenza corporale, anime dei defunti, anime dannate, anime sante, ecc.) e di ciò che è la vita spirituale e/o la vita mistica (vita nello Spirito Santo, inabitazione dello Spirito, azione di Dio nell’anima, partecipazione corporale ai patimenti di Gesù, ecc.). Anche nell’esperienza di fede dei fedeli il concetto di persona ha sostituito solo in parte il linguaggio della fede. Quando ci viene raccontata una esperienza spirituale si utilizzano sempre termini quali; anima, corpo, spirito, spiriti ecc. Diversamente quando si racconta una esperienza relazionale, legata ai propri sentimenti verso persone e situazioni o anche nei confronti di Dio; tuttavia dobbiamo parlare di esperienza psicologica-sociale piuttosto che di esperienza spirituale.

 d) Interpretare ciò che è spirituale

 Gli autori descrivono ciò che nell’uomo è da identificarsi con la sua dimensione spirituale prendendo in esame il processo decisionale:

“Per evitare tale inconveniente, la teologia contemporanea preferisce partire da un dato di esperienza immediata, cioè dall’azione umana che, pur essendo una, ha due aspetti diversi. Una decisione libera per esempio è un unico fatto umano che però può essere perfettamente descritta da due punti di vista differenti e complementari, come un processo biochimico, e come un processo psicologico. Non si tratta però di due processi distinti, che si condizionano a vicenda, ma di due aspetti dello stesso processo” [9].

Ciò che viene messo in evidenza è la decisione libera che può essere descritta nel suo duplice processo biologico e psicologico. Dal processo psicologico della libera scelta si evidenzia l’attributo costitutivo della razionalità che rende l’uomo cosciente dei suoi atti e dunque libero e responsabile delle proprie azioni; è questa la sfera che viene dagli autori definita «spirituale».

“Gli attributi costituenti la sua essenza possono essere ordinati in due cerchi concentrici intorno al punto «io»: il primo cerchio risulta dalla razionalità e dalla libertà, senza cui ogni coscienza sarebbe contraddittoria: è la sfera della spiritualità. Intorno a questo cerchio, ve ne è un altro, formato dagli attributi della vita corporale sensitiva, senza cui i fenomeni concreti dell’esperienza umana nella loro corporeità sarebbero inintelligibili. In base a questa concezione possiamo definire l’uomo con un «io» che inevitabilmente ha una «spiritualità» la quale di fatto esiste nell’auto-comunicazione alla materialità” [10].

Per quanto ci riguarda si descrive la natura spirituale dell’uomo intesa nella sua sfera psichica che si eleva alle massime espressioni della razionalità come l’arte, la musica, la poetica, ecc. Questi aspetti caratterizzanti la vita umana che elevano l’uomo alla sua vera dignità, che trascende la sua dimensione corporea-biologica-materiale, non dicono sufficientemente la sua chiamata a partecipare della vita divina, di cui i mistici ne descrivono l’esperienza. La dimensione spirituale dell’anima razionale è la vita nello Spirito; inoltre occorre precisare che l’azione dello Spirito di Dio nell’uomo è nell’anima come nel corpo, non vi è un dualismo spiritualista ma un’operazione congiunta che rende il corpo e l’anima tempio di Dio, dove Egli con chi vuole, quando vuole e come vuole manifesta il suo operare con effetti corporei-psichici (soma-psiché) che i mistici tentano di descrivere nei testi che diventano testimonianza di ciò che accade nell’uomo abitato dallo Spirito. A nostro parere la difficoltà oggettiva dei mistici di descrivere ciò che accade dipende proprio dal fatto che chi opera è lo Spirito e non la natura umana, non l’intelligenza, non il genio artistico poetico-letterario che predilige il genere simbolico-metaforico per dire l’indicibile. Non si può dire o scrivere ciò che è detto dallo Spirito nel cuore dell’uomo; possiamo ricevere «il dono delle lingue» per essere capiti da chi ci ascolta,  ma non potremo de-scrivere i «gemiti inesprimibili dello Spirito»[11].

 


[1] M. Flick – Z. Alszeghy, Fondamenti di una antropologia teologica.

[2] M. Flick – Z. Alszeghy, 89, n.182.

[3] M. Flick – Z. Alszeghy, 90, n.184.

[4] M. Flick – Z. Alszeghy, 91, n.188.

[5] M. Flick – Z. Alszeghy, 99-100,  n.208.

[6] M. Flick – Z. Alszeghy, 98, n.204.

[7] M. Flick – Z. Alszeghy, 97, n.202.

[8] M. Flick – Z. Alszeghy, 101, n.211.

[9] M. Flick – Z. Alszeghy, 100, n.209.

[10] M. Flick – Z. Alszeghy, 100, n.210.

[11] Rom 8,26.

Una risposta a “Rilievi critici e considerazioni su alcuni modelli antropologici”

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