Il primato dello spirito nella matrice filosofica del personalismo: filosofia e mistica

Quale primato dello spirito nel personalismo di E.Mounier?

Il Mounier[1] vive in un contesto filosofico-culturale gravato da un allargato influsso dell’ideologia marxista da un lato e dall’altro dall’evolversi delle diverse correnti esistenzialiste come reazione all’idealismo tedesco. Nel suo vitale percorso filosofico cerca di coniugare l’esigenza concreta di considerare l’uomo nella sua dimensione materiale, dimensione questa, stuzzicata dal dialogo con le provocazioni del materialismo marxista, con la dimensione «mistica» della vita umana, nel suo generarsi soggettivo, qui e ora, nell’intimo e nel personale. Nell’orizzonte filosofico della contrapposizione tra l’idealismo soggettivista e l’ontologia oggettiva, il Mounier scorre nel suo affluente verso il grande fiume dell’esistenzialismo[2] che cerca di giungere al «mare della Sapienza» separandosi da posizioni percepite come stagnanti. Per conoscere il pensiero e il movimento personalista di Mounier bisogna introdursi nella lettura della sua raccolta dei primi articoli della rivista Esprit da lui fondata e guidata; articoli contenuti sotto il titolo «Révolution personnaliste et communautaire» del 1935. Per il fondatore dell’Esprit che cos’è il personalismo?

“Il personalismo può sembrar inafferrabile a chi vi cerca un sistema, mentre è prospettiva, metodo, esigenza. Come prospettiva, all’idealismo e al materialismo astratti contrappone un realismo spirituale, sforzo continuo per ritrovare l’unità che queste due prospettive scindono […] Come metodo, il personalismo respinge a un tempo il metodo deduttivo dei dogmatici e l’empirismo bruto dei «realisti» […] Come esigenza, infine, il personalismo è l’esigenza di impegno totale e incondizionato[3].”

Secondo M. Montani[4] la migliore definizione del personalismo mounieriano la dà P. Ricoeur nell’articolo «Une philosophie personnaliste» apparso nella rivista Esprit[5]:

“La sua grande forza sta nell’aver saldato, nel 1932, nel suo momento germinale, il proprio modo di filosofare alla presa di coscienza di una crisi di civiltà [… ponendo] all’origine una pedagogia della vita comunitaria legata ad un risveglio della persona. […] Il suo grande contributo al pensiero contemporaneo è stato, mettendosi al di sopra di una problematica filosofica in senso stretto, al di sopra delle questioni riguardanti il punto di partenza, il metodo e l’origine, di offrire ai filosofi una matrice filosofica, di proporre loro delle tonalità, delle prospettive teoriche e pratiche capaci di una o parecchie filosofie, gravide di una o parecchie sistemazioni filosofiche[6].”

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Rilievi critici e considerazioni su alcuni modelli antropologici

Introduzione ai prossimi articoli

La lettura e l’interpretazione dei testi di spiritualità e/o di mistica attraverso una «vedetta antropologica» comporta una lettura con propri criteri euristici che inevitabilmente esprimono giudizi sull’esperienza spirituale, arrivando a considerazioni molto differenti e forse contrastanti. Da un lato vorrei tentare in qualche modo di prendere criticamente le distanze da alcuni di questi modelli antropologici e dall’altro lato esplicitare l’assunzione di un modello antropologico fondato sulla Sacra Scrittura, sui Padri della Chiesa, sui Dottori mistici che si agganci anche ad un autore contemporaneo facilitando al lettore alla comprensione critica della nostra «vedetta antropologica». In questa prima parte seguiranno alcuni interventi nell’area dell’antropologia teologica: la categoria teologica del soggetto incarnato in M. Flick e Z. Alszeghy; nell’area dell’antropologia filosofica il primato dello spirito nel personalismo comunitario in E. Mounier; nell’area delle scienze psico-sociali gli studi antropologici su basi interdisciplinari della psicologia del profondo in L.M. Rulla.

Il soggetto incarnato in  M. Flick e Z. Alszeghy[1]

Condividiamo il punto di partenza dei due teologi, considerando l’uomo immagine di Dio in quanto è persona «dotata di una speciale immanenza e trascendenza […] ha una speciale dignità superiore a tutto il mondo materiale eppure l’uomo appartiene al mondo materiale»[2]. Si tratta di individuare la categoria teologica che espliciti la struttura di questa diversità nell’unità: come spiegheremo più avanti, noi preferiamo parlare di «creatura duale abitata dallo Spirito» mentre gli illustri teologi preferiscono la categoria del «soggetto incarnato».

a) Un diverso approccio fondativo desunto dalla Sacra Scrittura

 Riguardo alla struttura dell’uomo nella Sacra Scrittura, descritta nei termini di soma, psiché e pneuma, si argomenta per dimostrare che:

“la semantica di queste parole mostra varie fasi del passaggio dall’uso metaforico verso la concettualizzazione; il significato è perciò oscillante nei vari libri, anzi nei vari contesti della medesima opera. La speculazione teologica non può dunque appoggiarsi su questi termini, come se essi costituissero asserti chiari e distinti sulla struttura dell’uomo” [3].

Diversamente da questa considerazione semantica comunemente citata, il nostro approccio teologico, senza la pretesa di trovare sempre asserti chiari e distinti nell’uso dei termini, del loro significato semantico e di contenuto descrittivo, ritiene che sia possibile fondare biblicamente la categoria teologico-antropologica dell’uomo considerato «creatura duale abitata dallo Spirito». Il fatto che nella Bibbia si racconti l’esperienza umana senza una dichiarazione definitoria sull’uomo, conduce gli autori ad affermare: Leggi tutto “Rilievi critici e considerazioni su alcuni modelli antropologici”

La teologia dei mistici /1

Quali categorie teologiche per accedere correttamente alla “mistica”

Precisiamo cosa si debba intendere per teologia mistica citando un autore oggi poco considerato ma molto interessante:

“Chiamiamo teologi mistici quelli che hanno provato esperienze divine e hanno misteriosamente gustato Dio. Di questa sceltissima schiera, gran parte è ascritta nel catalogo dei santi […] Si può parlare di una triplice teologia: la prima, che tratta delle definizioni di fede, ricondotta a metodo con non poche fatiche, basata su testi sacri, sui Concili e sui Padri, armata di argomentazioni […] La seconda è detta positiva, ossia quasi espositiva. Con gli insegnamenti dei Padri, la conoscenza delle lingue, l’approfondito esame dei testi […] in termini propri, oppure simbolica, quando applica a Dio denominazioni o metafore, cogliendole dalle creature. La terza, che non discute come la scolastica né concepisce le divine rivelazioni con termini presi in senso proprio o traslato come la positiva, ma tralasciati ragionamenti e nomi, con l’intelletto stupito oltre qualsiasi immagine creata e con la volontà sollevata più in alto, gusta e abbraccia Dio. Il magistero di questa teologia appartiene solo a Cristo, che istruì Paolo” (Giovanni di Gesù Maria Calagorritano, La teologia mistica, 8-9).

Nei prossimi articoli evidenzieremo che il Calagorritano è sulla stessa linea interpretativa dei dottori mistici carmelitani e delle opere di San Dionigi Areopagita[1], discepolo dell’apostolo Paolo Dottore Mistico per eccellenza: la teologia mistica è l’esperienza spirituale di gustare, per gradi di partecipazione, l’unione con Dio. La via principale non è quella dell’intelletto che si applica sull’oggetto contemplato, ma l’unione della propria volontà con la volontà di Dio. L’intelletto è accecato dalla tenebra luminosissima della presenza di Dio che è amore, che scalda con un fuoco invisibile la notte oscura dell’anima. Voler amare l’amore è voler ciò che Egli vuole sopra ogni comprensione intellettiva.

 “I teologi mistici espongono molti concetti in modo troppo semplice ed in maniera troppo poco esplicita e distinta per poter essere intesi da un lettore poco attento. […] Scambiano l’atto della volontà con quello dell’intelletto, come quando alla percezione, al gusto, all’esperienza di Dio, tutti termini che si riferiscono alla volontà, attribuiscono i termini di visione, notizia o conoscenza, come si fa per i sensi esterni. […] Tre sono le cose difficili in  questa teologia. La prima, se possa accadere che Dio sia dall’uomo più amato che conosciuto; la seconda se, senza alcun atto dell’intelletto, la volontà possa percepire Dio; la terza se possa avvenire che l’intelletto e la volontà, subiscano divini interventi senza produrre atti propri” (Giovanni di Gesù Maria Calagorritano, La teologia mistica, 10-11). Leggi tutto “La teologia dei mistici /1”

Spirito e psiche /2

Unità duale del composto umano

Non perdersi nel mare di parole dette e scritte per definire o descrivere l’essere umano è la premessa per cercare di conoscere e delineare la complessità della creatura umana. Non si tratta di cercare un modello teorico che sia nuovo o che sia maggiormente accettato da tutti, né si tratta di appagare l’intelletto su ciò che resta mistero mai conosciuto appieno e mai compreso dall’uomo stesso. L’umiltà di riconoscere che non siamo i primi ad indagare la natura umana, fa rivolgere il nostro sguardo alla sapienza sull’uomo scritta nei testi dei Padri della Chiesa, dei Santi e dei mistici Dottori della Chiesa. La questione antropologica, nella sua vasta panoramica, veniva svelata attraverso l’esperienza della vita di fede e secondariamente tematizzata nel processo di inculturazione con il mondo pagano e la filosofia dei greci. Senza eccessive semplificazioni, i Padri e i Dottori della Chiesa, da sant’Agostino a san Tommaso d’Aquino, da sant’Evagrio Pontico a san Giovanni della Croce, con linguaggi e in contesti differenti, hanno avuto convergenze recepite ancora oggi dal Magistero della Chiesa e da quella che possiamo chiamare i principi dell’antropologia cristiana. In primo luogo, l’esistenza dell’anima e questa unita al corpo è sempre stata affermata; secondariamente si dichiara acquisito il primato dell’anima sul corpo in attesa della risurrezione, utilizzando categorie prese in prestito dalla filosofia greca per affermare l’unità anima-corpo (sinolo: sintesi di materia e forma), fino all’attuale visione olistica dell’uomo in uso nelle psicologie; l’esistenza dell’anima e l’unione con il corpo è un punto fermo dell’antropologia cristiana che solo nell’età moderna è stato messo in discussione con l’affermazione del biologico sullo psichico e delle emozioni e pulsioni sulla dimensione più propriamente spirituale. Una questione di fondo è Leggi tutto “Spirito e psiche /2”

Una rinnovata demonologia

Una rinnovata demonologia in prospettiva creaturale-simbolica

Considerazioni e approfondimenti

Il confronto dialettico post-conciliare, come testimonia il pensiero teologico del W.Kasper[1] ha evidenziato la negazione dell’esistenza creaturale del diavolo e di una possibile demonologia senza risolvere le aporie filosofiche e teologiche con una posizione che esclude la nostra prospettiva ermeneutica. Pur affermando la natura creaturale[2] degli angeli pervertiti riteniamo il nostro approccio, dal punto di vista metodologico e non contenutistico, capace di essere inclusivo rispetto all’ermeneutica linguistica proposta dal Kasper che preferisce l’approccio linguistico-simbolico per dimostrarne la non esistenza creaturale. Riteniamo infatti che l’analisi semantica del testo in prospettiva simbolica arricchisca il valore veritativo del contenuto che la forza del simbolo dischiude senza negarne l’esistenza creaturale. Ne proponiamo una applicazione a titolo di esempio riguardo al testo di Marco[3] e Luca[4] sull’indemoniato di Gerasa dove il geraseno è posseduto da uno spirito immondo che interrogato da Gesù dichiara di chiamarsi Legione. Il termine legione nel contesto storico evocava simbolicamente l’occupazione romana che gli ebrei subivano con presidio militare. Una delle aspettative di liberazione attese dal Messia. Un liberazione anche e soprattutto territoriale. La legione richiama esplicitamente un linguaggio militare, una tecnica di combattimento molto efficace e conosciuta all’epoca romana. Una breve descrizione tecnica ci aiuterà a comprendere la forza simbolica della Legione. Leggi tutto “Una rinnovata demonologia”

L’ermeneutica linguistica di un testo (biblico teofanico/apocalittico o di mistica cattolica)

Gesù Cristo, personalmente, non ha lasciato nulla di scritto. La natura stessa di un testo, proprio perché porta con sé la possibilità di interpretazione, tende a sfuggire continuamente da ciò che veramente è detto, con le parole e con la vita stessa, con l’esserci e l’operare, nel nostro caso del Verbo Incarnato; sappiamo che il testo del Vangelo è divinamente ispirato e vivificato dallo Spirito, ma occorre che sia anche interpretato nello stesso Spirito dato agli Apostoli per incontrare il Santo Volto nella Verità (Gv 16,13-15; Gv 14,1ss; 1Gv 4,1ss; 1Gv 5,6-10). Egli si è lasciato conoscere dai suoi attraverso due percorsi differenti e complementari; il vivere con lui, ascoltando e vedendo la sua persona, e attraverso l’incontro mistico, tradizionalmente rappresentato dall’esperienza dell’Apostolo Mistico Paolo di Tarso, negli scritti dell’Apostolo Giovanni, la Trasfigurazione su Tabor, ma anche attraverso le numerose apparizioni e rivelazioni dopo la risurrezione e negli atti lucani. I testi che ci trasmettono l’esperienza dell’incontro con il Dio rivelato in Cristo Gesù, presentano difficoltà interpretative per la filosofia del linguaggio; tuttavia “dire l’indicibile” non è una novità dell’ermeneutica linguistica contemporanea ma appartiene alla natura stessa della Rivelazione, conosciuta fin dai Padri Apostolici e dai Padri della Chiesa.

L’approccio linguistico ad un testo religioso e ancor più per un testo mistico, nasce dalla possibilità o meno di «dire Dio» e di «dire il detto di Dio». Gli autori dei testi sono chiamati a scrivere cose che «non si possono descrivere», affermano spesso che non hanno parole adatte per esperienze che «non si possono spiegare». Questa oggettiva difficoltà di comunicare l’esperienza soggettiva di Dio è caratteristica ontologica del comunicarsi del Creatore nella e alla creatura; la Verità ontologica del Verbo si comunica nella limitatezza e finitezza adamitica dell’uomo. Questa dinamica relazionale della comunicazione mistica, intima tra Dio e l’uomo è assunta indebitamente dal contesto culturale contemporaneo, per il quale, proprio perché per sanzione logica e metodologica «di ciò che non si può parlare si deve tacere», di tale dinamica relazionale si deve fare silenzio o al più studiarne i «rumori semantici». Ma l’esperienza ispirata o mistica della “Parola” comunicata nel testo non è solamente un linguaggio dell’uomo su Dio ma primariamente un linguaggio di Dio nell’uomo e per l’uomo; anche per questo nel «dirsi» testualmente, nel comunicarsi è semanticamente «indicibile». I criteri linguistici applicati alla Sacra Scrittura e ai testi di mistica colgono le «note musicali» di uno spartito senza chiave melodica e pentagramma su cui collocarle; così la melodia della comunicazione divina risulta un rumore psichico di natura antropologica o tutt’al più l’arte della comunicazione umana di scrivere su Dio. Leggi tutto “L’ermeneutica linguistica di un testo (biblico teofanico/apocalittico o di mistica cattolica)”

Inferno e Misericordia

Ermeneutica dell’Inferno nell’eterna Misericordia

Interpretare la realtà eterna dell’Inferno come possibilità reale della libera e consapevole scelta dell’uomo. Richiamare le posizioni, antiche e mai sopite, sulla questione escatologica dell’Inferno eterno aiuta ad esplicitare la nostra riflessione.

Posizioni antiche e recenti

In sintesi le posizioni sull’esistenza o meno dell’Inferno eterno, osservate criticamente, si ripropongono anche nell’odierna ermeneutica escatologica che coinvolge la vita morale e spirituale; l’apocatastasi[1] che vede l’anima dannata reintegrarsi nella Gloria attraverso un percorso di purificazione; le posizione gnostiche[2] che si riassumono nel considerare il destino del malvagio un Inferno senza eternità perché estinto e consumato dal fuoco; prendiamo una distanza critica anche dalla tesi dell’Inferno pedagogico di H. U. Von Balthasar[3] (da lui sostenuta o a lui attribuita) che è ritenuto vuoto per sostenere la speranza evangelica che tutti si salvino; posizione antica[4] e sempre nuova è anche quella espressa da A. Piolanti[5], approccio tradizionale in continuità con l’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica[6].

Se l’inferno non fosse possibile, il sacrificio di Gesù Cristo, Nuovo Adamo, sarebbe salvifico a prescindere dai peccati degli uomini. Si negherebbe indirettamente il valore salvifico della Croce. Se fosse ammissibile l’apocatastasi di Origene per il diavolo e le anime dannate, dovremmo ammettere la possibilità di uscire dal paradiso per le anime sante; se si fonda sulla volontà divina di salvare tutti comunque, il paradiso sarebbe un carcere obbligatorio, una gioia “drogata” che non ha nulla  a che fare con pace e la gioia eterna di poter amare ed essere amati nella libertà; se si fonda sulla libertà di pentimento a causa dei dolori dell’inferno, non ci sarebbe amore per Dio ma convenienza e lo stesso principio dovremmo applicarlo anche per le anime in paradiso, che sarebbero libere di pentirsi e di abbandonare l’amore eterno.

Intellettualizzare il discorso sull’Inferno ci allontana da una riflessione cogente: l’inferno esiste realmente ed è presente in forma dinamica e non passiva. Le anime dannate, come gli angeli decaduti, odiano dinamicamente il Creatore, le creature e se stessi in quanto creatura.

Osservazioni ermeneutiche e approfondimenti

 L’aporia tra l’infinita misericordia di Dio e la dannazione eterna è all’origine delle posizioni[7] che sostengono la riduzione o l’eliminazione delle due verità in apparente contraddizione. Dio che è amore pare non possa essere contemporaneamente autore della condizione definitiva di dannazione per l’uomo che si ribella consapevolmente al suo volere. Da un altro punto di vista pare che il volere dell’uomo dannato non possa persistere per l’eternità nel ribellarsi a Dio e che prima o poi debba cedere all’Amore Eterno del suo creatore. Forse il punto centrale della Leggi tutto “Inferno e Misericordia”

Storicità e Spiritualità

Se l’uomo “psichico” non intende le “cose” spirituali” come possiamo conoscere le spiritualità chiudendola e interpretandola unicamente nel suo contesto vitale? Nel loro contesto storico? Come possiamo affermare che vi sia una spiritualità del ‘700 o dell’800? È un dato acquisito che per comprendere una spiritualità sia indispensabile studiarne il “Sitz im Leben”, il contesto vitale dove si è sviluppata l’esperienza spirituale. Questa categoria ermeneutica del contesto vitale presa in prestito dai biblisti e comunemente applicata ai testi di spiritualità presenta limiti evidenti. Un santo del ‘700 ha lasciato scritto la sua esperienza spirituale: Si studiano le fonti da cui ha attinto l’autore del testo di spiritualità, il contesto sociale in cui è vissuto, le sue sfumature psicologiche, l’influsso del contesto ecclesiale dell’epoca, i destinatari, ecc. Da tutto questo “umus” storico e geografico siamo in grado di comprendere la spiritualità del soggetto in esame? Possiamo far entrare nella categoria del “Sitz im Leben” del ‘700 tutti coloro che hanno vissuto una esperienza intima di comunione con lo Spirito Santo?

«Se ci si tiene fermi all’idea del carattere chiuso e unitario delle epoche storiche […] si soggiace ad una interpretazione dilettantesca del Kairos, la preoccupazione di raggiungere l’uomo del nostro tempo impedirà di raggiungere l’uomo di ogni tempo». (D. von Hildebrand, Il cavallo di Troia nella città di Dio, 178)

«Perciò un effettivo progresso nella via individuale implica la perseveranza e la continuità, la fedeltà ai valori immutabili. […] Il progredire nel senso di una sempre più fedele imitazione di Cristo, di un lasciarsi trasformare sempre più da Cristo, implica univocamente una fede profonda e incrollabile in Lui. […] Il vero progresso si riferisce dunque ad un mutamento positivo della misura in cui si vive conformemente al vero fine della propria vita. » (D. von Hildebrand, Il cavallo di Troia nella città di Dio, 135-136)

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Discernere spirito da psiche

Una questione non marginale è quella chiarire la distinzione della dimensione spirituale dalla dimensione psichica dell’uomo. Partiamo dalla Parola di Dio che attualizza e realizza il tema proposto:

Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto.” (Eb 4,12-13)

Sembrerebbe che la dimensione profonda dello spirito vada oltre le facoltà dell’anima, per usare una categoria tomista classica. Nessuna creatura può nascondersi dalla potenza viva e vivificante della parola di Dio che “penetra fino al punto di divisione” della psiche dallo spirito. La Parola va al di là della categoria psicologica di conscio e inconscio; siamo nudi ai suoi occhi o dobbiamo renderne conto nello spirito, nella risposta che diamo alla Parola nei “pensieri del cuore”, nel “midollo” spirituale di noi stessi.

Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, non con un linguaggio suggerito dalla sapienza umana, ma insegnato dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali. L’uomo naturale però non comprende le cose dello Spirito di Dio; esse sono follia per lui, e non è capace di intenderle, perché se ne può giudicare solo per mezzo dello Spirito. L’uomo spirituale invece giudica ogni cosa, senza poter essere giudicato da nessuno.” (1Cor2,10-15)

In cosa consiste la dimensione spirituale dell’uomo? Non è certamente ciò che comunemente molti, confondendo “nous” con “pneuma”, affermano: l’uomo spirituale è l’uomo intellettuale. La dimensione spirituale dell’uomo va cercata nella relazione con lo Spirito di Dio. Non è la sapienza umana ma lo Spirito di Dio che genera nell’uomo una conoscenza spirituale di “cose” spirituali. L’uomo spirituale discerne le “cose” spirituali” che la psiche non è capace di intendere e giudica come pazzia.