Antropologia interdisciplinare e dimensione psicologica/3

Una maggior chiarezza della distanza interpretativa dei modelli antropologici rispetto ad un testo di mistica cattolica, per esempio della Serva di Dio Cecilia Maria Baij vissuta a Montefiascone nella prima metà del ‘700, potrebbe chiarire la posta in gioco. L’angolatura che prendiamo è il tema  dell’obbedienza; un esempio di come interpretare il bisogno di stima di sé e del valore dell’obbedienza nella vita psichica e spirituale. Occorre premettere che  l’approccio dello studio di Rulla è applicato sulle persone attraverso il colloquio vocazionale; è possibile tuttavia un approccio ermeneutico dell’epistolario cogliendo, nelle dinamiche testuali ripetitive, le tracce di una personalità che può in parte essere codificata e interpretata. Al termine di ogni lettera la Baij conclude sempre con espressioni di estrema sottomissione, anche per le piccole cose:

“Mi faccia la carità di mandarmi l’obbedienza; Resto sua umilissima, obbedientissima, serva e figlia nel Signore; mi pare che non dovrei dire queste cose ma le dico per obbedienza; soddisfo al mio obbligo di obbedienza; resto vostra affezionatissima obbedientissima serva e figlia; umilissima, obbedientissima e indegnissima serva e figlia nel Signore; torno a scrivere per obbedienza; con il merito però della santa obbedienza la quale ora gli domando; ma la santa obbedienza devo farla e perciò vostra reverenza saprà quello che dovrò fare”[1]

Anche attraverso numerose altre espressioni qui non riportate, la Baij sembra avere una bassa stima di sé, che la spinge a chiedere insistentemente obbedienze, professandosi al padre spirituale obbligatissima o obbedientissima serva e figlia nel Signore al termine di ogni lettera. Potremmo facilmente interpretare il bisogno inconscio di stima e di affetto celato sotto un atteggiamento d’obbedienza remissiva e assillante. Un bisogno profondo e radicale di essere sottomessa in tutto all’obbedienza per ricevere conferme, stima, affetto dal padre spirituale Gaetano Boncompagni. Un bisogno inconscio che minerebbe la capacità di vivere l’obbedienza in modo maturo e consapevole, una inconsistenza motivazionale tra il valore dell’obbedienza proclamato e il bisogno profondo di stima e affetto. Una prima osservazione su questo modo di interpretare la vita psichica che soggiace alla vita spirituale deriva dalla necessità evangelica di natura spirituale e non psichica, di obbedire al padre spirituale scelto nella fede per non essere ingannati da se stessi e dal demonio nel cercare e fare la volontà di Dio; questa motivazione spirituale a nostro avviso mette al riparo l’autenticità della vita spirituale da motivazioni inconsce e limiti psichici della natura umana. Una seconda osservazione; se fosse anche vero il bisogno profondo di stima e affetto, a tal punto da essere una penosa ferita psichica capace di rendere tortuosa la relazione con il padre spirituale, la Baij o chi per essa, con il sincero desiderio di mortificare se stessa attraverso il percorso virtuoso dell’obbedienza spirituale[2], offrirebbe al Mistico Sposo tutta se stessa, sentendosi e sapendosi amata dall’amore Misericordioso; è lo Spirito Santo che trascende, trasfigura la Sposa, dove essa non sarebbe capace di autotrascendersi teocentricamente a causa del suo limite psichico inconscio.

Quali conseguenze ha un’ermeneutica dell’esperienza mistica e spirituale con queste premesse antropologiche che riducono a «nous» ciò che è «pneuma»? Dal nostro punto di vista il marginalizzare l’azione e la presenza dello Spirito Santo nella vita spirituale dell’uomo (intesa come vita nello Spirito) riduce l’antropologia all’analisi delle sole facoltà dell’anima (intelletto, memoria, volontà) chiamando e interpretando ciò che è spirituale in ciò che è solamente di natura psichica, e viceversa ciò che è psichico è interpretato come di natura spirituale.

 c) L’atto di fede è un atto dell’intelletto?

La terza questione che poniamo allo studio di Rulla è il chiarire e l’intendere cosa implichi nell’uomo l’atto di fede rispetto alla ragione, dato che questa è per l’autore la dimensione spirituale dell’anima. L’atto di fede resta così un atto dell’intelletto rispetto ad un contenuto ritenuto rivelato. Ma la fede è anche un atto della volontà, un atto libero di adesione consapevole non solo alla verità, ma al contempo è un atto amorevole e fiducioso in Gesù Cristo che per mezzo dello Spirito Santo ci apre alla conoscenza-mistica dei misteri di Dio[3]. Per l’autore:

la fede non può forzare la ragione; sia l’opzione che il contenuto della fede richiedono qualche giustificazione razionale. […] La fede suppone implica e esige l’autonomia della ragione umana, però essa non la crea, perché è la ragione stessa che fonda e giustifica la propria autonomia. La fede può aiutare la ragione a scoprire i propri limiti, però essa non li può mettere perché la ragione non ha altri limiti che quelli che essa stessa constata. […] la ragione condiziona a priori la possibilità della fede, però non è la misura della fede[4].

Il rischio è di una intellettualizzazione dell’atto di fede e quindi della dimensione spirituale dell’uomo; se credere nello Spirito Santo, come atto spirituale della ragione, è un’adesione dell’intelletto, di conseguenza si interpreta la vita nello Spirito come un atteggiamento mentale. La vita spirituale è considerata un qualche cosa di astratto, di opposto a materialità separando nell’uomo, con una visione dualistica, l’azione dello Spirito Santo; vi «accedi» con l’intelletto e lo «ricevi» nell’intelletto e la dimensione corporea e biologico-psichica non è coinvolta; lo Spirito Santo non avrebbe nulla a che fare con gli effetti spirituali che coinvolgono la corporeità e che la tradizione chiama doni o esperienze «mistiche». Se lo Spirito non ha a che fare con la corporeità dell’uomo e la sua dimensione biologica-psichica, non resta altro che affidarci alla psicologia e psichiatria per tentare di spiegare questi fenomeni isterico-mistici che attribuiscono alla parola «mistica» un contenuto semantico inconciliabile con l’opera dello Spirito e alla parola «ascesi» una diversa forma di anoressia cronica.

In conclusione, interpretare la mistica e in generale tutta la vita spirituale con un’antropologia che non consideri l’opera dello Spirito nell’uomo nella sua dimensione creaturale duale di anima-corpo distorce la capacità di «vedere» l’Invisibile, di «toccare» con mano sapiente i «tocchi» dello Spirito, di far vibrare i testi dei mistici cogliendone il «sapore» e il «profumo» oltre il senso letterale e il significato semantico.

 

 


[1] Espressioni che si trovano diverse centinaia di volte in tutte le lettere dell’epistolario preso in osservazione.

[2] Nell’obbedienza spirituale intendo precisare che l’orizzonte motivazionale è «coperto» o «centrato» dal Volto di Gesù, conosciuto nella sua dimensione mistica-sponsale (lo Sposo Diletto che chiama la Sposa); la ferita di natura psichica, conscia e inconscia, è trasfigurata dalla e nella dimensione spirituale per opera dello Spirito Santo.

[3] «la fede che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell’aiuto soprannaturale della grazia è effettivamente di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull’esperienza, e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la “pienezza di grazia e di verità” (Gv 1,14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n. 9)

.[4]        L.M. Rulla, 44-45

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